Chiesa esclusivo: “Il Mondiale è obbligatorio, siamo l’Italia”

Una stagione particolare, «di apprendimento a 27 anni». La chiara volontà di rimettersi in gioco per ritrovare il centro del calcio e la Nazionale
Chiesa esclusivo: “Il Mondiale è obbligatorio, siamo l’Italia”
Ivan Zazzaroni
8 min

Per un’intera stagione ho controllato le formazioni del Liverpool, sostituzioni comprese. Un esercizio perverso. E lui non c’era mai. O quasi. Dopo i primi mesi ho cominciato a chiedermi come potesse tollerare l’esclusione sistematica, lui che è Federico Chiesa, 27 anni, 235 partite e 47 gol in serie A tra Fiorentina e Juventus, 51 presenze e 7 reti in Nazionale e un’altra cinquantina di apparizioni nelle varie coppe, tredici in Champions. Non nego di avere addirittura sospettato che gliel’avesse data su, privilegiando l’esperienza di vita, curioso e affamato di avventure com’è, nonostante Liverpool non sia Londra, né New York o Tokyo. Ogni tanto uno scambio di messaggi e mai che abbia criticato Slot, anzi: solo elogi. «Le scelte si accettano da professionista e si va avanti» chiarisce. «Nei primi mesi le difficoltà non sono mancate, se pensi che sono arrivato a Liverpool il 26 agosto e mi sono ritrovato catapultato su un altro pianeta, con altri compagni, senza essermi allenato con loro, ma con un preparatore, zero amichevoli, nulla... E, se ricordi, in autunno il Liverpool andava il triplo degli altri, un’intensità pazzesca». 

Preso per giocare a destra dove il posto era ed è ancora occupato da Momo Salah. 

«Il Pallone d’oro o uno dei candidati al premio». 
 
Avresti potuto tentare la svolta a sinistra, come nella Juve. 
«C’erano Luis Diaz e Gakpo. Slot mi ha fatto giocare anche da nove. È stato Max a cambiarmi posizione, suggerendo di muovermi da seconda punta per segnare di più, e i miei gol li ho fatti... Questa esperienza è stata importante, formativa, mi devi credere. Avendo studiato alla scuola inglese non ho incontrato problemi con la lingua, mi è piaciuto un sacco misurarmi con una cultura diversa, idee diverse, anche calcistiche». 
 
Un esempio. 
«In Premier il day off è istituzionalizzato, è il giorno della settimana destinato al recupero delle energie e alla famiglia. In Italia non è così. Il ritiro è una pratica occasionale. Con Slot, anche se è olandese, mai quando si gioca in casa e solo se si è in trasferta. L’attenzione nei confronti delle famiglie dei calciatori è elevatissima. C’è un lavoro costante dietro le quinte per permettere all’atleta di star bene tanto in campo quanto fuori». 
 
Un autentico paradiso, insomma. 
«Una realtà evoluta... In campo la regola è semplice: tutto è spinto al massimo, pressione forte, intensità, mai una pausa. Per dire, l’attaccante ha cinque secondi per rientrare e piazzarsi dietro la linea della palla. L’output fisico è eccezionale». 
 
Mi sta bene tutto, ma è possibile che tu non abbia patito l’assenza dal campo? In panchina avevi i piombi.  
«All’inizio ho provato la frustrazione del cambiamento radicale e del fatto di essere molto indietro rispetto al gruppo, poi c’è stato l’infortunio. Fino alla partita col Psg il Liverpool era davanti a tutti, in semifinale di Carabao e tra le favorite in Champions, che ha vinto proprio il Psg. Potevo mettermi a discutere le scelte di Slot che con me è sempre stato rispettosissimo, così come il club? La voglia di giocare c’era eccome, l’ho messa da parte, ho capito la situazione. Accantonata ogni forma di individualismo». 
 
Che idea ti sei fatto della finale di Monaco? 
«Quando abbiamo giocato l’andata col Psg ci hanno messo sotto di brutto, anche se poi abbiamo vinto. Nel ritorno le cose sono andate diversamente e hanno vinto loro. Squadra fortissima, ad alta intensità. La finale l’avevo immaginata 50 e 50».  
 
Le due cifre in fondo sono le stesse, anche se... 
«Il pressing di Dembelé su Sommer, impressionante. Il 2-0 dopo venti minuti ha chiuso la partita, non era più recuperabile, a quel punto l’Inter era mentalmente schiantata». 
 
Fede, come ti muovi adesso? 
«L’anno è finito. Ma è un’esperienza che rifarei. Presto mi siederò al tavolo con il club, Fali (Ramadani, nda) e la mia famiglia per individuare la soluzione migliore. Restare a Liverpool non mi dispiacerebbe affatto».  
 
La Nazionale affronta la prima partita di qualificazione ai Mondiali. Tu non ci sei, mancano anche altri. 
«Fuori anche Kean. È dura, ma i nomi con contano più. Spalletti può dare molto alla squadra, non possiamo fallire l’obiettivo per la terza volta di seguito. Siamo l’Italia... Le attenzioni del ct mi hanno fatto piacere, quella maglia la rivoglio». 
 
Szczesny, Rabiot, Chiesa, Danilo: la pessima stagione della Juve si può spiegare anche attraverso queste quattro rinunce. 
«Che Szczesny e Rabiot fossero fuori dal progetto lo sapevamo tutti. Le esclusioni di Fagioli e Danilo invece mi hanno stupito. Dani nello spogliatoio era il punto di riferimento, è juventino dentro, il suo taglio una scelta che non ho capito, né condiviso... Motta con me è stato chiaro: non mi servi, cercati una squadra». 

E tu? 
«Gli ho detto che ero pronto a lottare, a mettermi alla prova perché volevo restare e dimostrare di essere ancora utile alla Juventus. Ma non c’è stato niente da fare. Va bene, è stata una sua scelta». 

In questi mesi sei stato accostato a mezza serie A, anche al Napoli. Conte l’hai mai sentito? 

«Mai, Antonio mai. Ho letto che mi hanno piazzato dappertutto, ma non ho avuto contatti diretti con nessuno. Giusto un messaggio di auguri di Max all’inizio. È un grande, oltre ad avermi cambiato posizione mi ha fatto capire la differenza che corre tra un allenatore di top club e uno di club medi. Carisma, gestione, sensibilità e tecniche che non si imparano a Coverciano, così gli rubo la battuta. Come lui sono Antonio, Ancelotti, Spalletti. Max è uno che ti dà tanto, col Milan punterà subito allo scudetto... A gennaio dello scorso anno eravamo convinti di potercela fare, il gruppo era solidissimo, entusiasta, tutti uniti. Male la seconda parte anche se ci siamo rifatti in coppa Italia». 
 
Di Firenze cosa ti resta? 
«È casa. I miei ci abitano, io torno spessissimo, la maggior parte degli amici è fiorentina. Non mi vedono più nei posti che frequentavo quando giocavo a Firenze, ma ho un legame fortissimo con la città». 


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